Livorno ha celebrato il 25 Aprile, 77° anniversario della Liberazione nazionale

Il programma delle cerimonie e delle iniziative

Livorno, 25 aprile 2022 – Si celebra lunedì 25 aprile la 77^ Festa della Liberazione, per ricordare il 25 aprile del 1945, giorno dell’insurrezione generale proclamata dal Comitato di Liberazione Nazionale contro le forze nazifasciste che stavano ancora occupando parte dell’Italia. 

Anche quest’anno a Livorno la festa nazionale della Liberazione è stata celebrata con una serie di iniziative promosse dall’Amministrazione comunale, che hanno coinvolto i rappresentanti delle istituzioni e la cittadinanza e che si sono aperte con la deposizione di due corone di alloro (una a cura del Comune e una a cura del Presidio Militare) al Monumento ai Caduti  in piazza della Vittoria,. Sschierati i gonfaloni del Comune e della Provincia e i labari delle associazioni combattentistiche, d’arma e partigiane.

Successivamente le autorità e le rappresentanze, passando da via Magenta, si sono ritrovate in via Ernesto Rossi, dove alle ore 10.20 sono state deposte due corone (una del Comune e una della Comunità Ebraica) al Bassorilievo al Partigiano.

A seguire, nella Sala Consiliare del Palazzo Comunale, il sindaco Luca Salvetti ha salutato i rappresentanti delle istituzioni. Saranno presenti anche rappresentanti di ANED, ANPPIA, ANEI e ANPI. E' seguita una una prolusione a cura della direttrice di ISTORECO Catia Sonetti .

Questo l'intervento del Sindaco:

Quest'anno, finalmente, celebriamo il 25 aprile senza restrizioni, visto il superamento dell'emergenza sanitaria. Dopo due anni di limitazioni per la pandemia possiamo e vogliamo ricordare con eventi e cerimonie una data decisiva per la pace del popolo italiano e per il ritorno ad una vita degna di essere vissuta in un Paese libero e democratico.

Lo dico con grande sincerità in questi giorni ho provato un senso di disagio pensando a come impostare il mio intervento nella giornata del 25 aprile. Una giornata i cui contenuti, valori e tratti per me sono sempre stati marcati e chiari. Il 25 aprile È la festa dell’antifascismo, che fu un fronte ampio, cattolici, comunisti, socialisti, repubblicani, liberali, azionisti che dettero vita ad una alleanza e da quell’alleanza sarebbe poi nata la nostra Costituzione e che adesso significa affermazione che ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignità', alla solidarietà' e che ogni persona bisognosa di aiuto tu devi soccorrerla, accoglierla, assisterla. 
Purtroppo ci sono delle forze, anche se minoritarie, che tendono a rivalutare il fascismo, a negare i valori della Resistenza, non solo in Italia ma anche nei Paesi europei, a cancellare una memoria che invece sarebbe molto importante preservare nell’intento di tramandarla ai giovani .

L'invasione russa dell'Ucraina, la discussione che ha aperto nella sinistra italiana, le polemiche, anche interne, che hanno investito l'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani d'Italia caricano il 25 aprile di quest'anno di un particolare e diverso valore simbolico, che purtroppo rischia di dar forza a chi vuol indebolire il senso di questa celebrazione. A questi dobbiamo dire no con convinzione evitando di cadere nella trappola che punta a dividere, e dobbiamo farlo in primis noi che rappresentiamo le comunità locali.

Su questo voglio dire una cosa, mesi fa si è svolta cerimonia del giorno del ricordo che è stata organizzata per le vittime dalmato istriane, in quell’occasione le componenti politiche di destra erano li schierate e dicevano che tutti i morti sono uguali, beh mi aspettavo di vederli anche oggi ad onorare la memoria dei morti per la liberazione. Di loro però non c’era nessuno e quest’assenza è ingiustificata e i livornesi lo hanno notato.

Io ribadisco sempre che, pur in un mondo globalizzato e spesso sovranazionale, il ruolo delle comunità cittadine e delle loro istituzioni rappresentative restano dominanti.
L’ho ricordato di recente a Firenze in occasione dell’incontro dei sindaci del Mediterraneo. I tessuti cittadini sono cellule che, se vitaliziate dalla partecipazione democratica e dal confronto, possono diventare portatrici sane di pace e democrazia.

L’ha detto con fermezza il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: "Dal nostro 25 aprile viene un appello alla pace, non ad arrendersi di fronte alla prepotenza. A praticare il coraggio di una de-escalation della violenza, il coraggio di interrompere le ostilità, il coraggio di ritirare le forze di invasione. Il coraggio di ricostruire".

Forse l'Europa è a un bivio, e così anche il nostro Paese, forse è il momento che si compatti per scegliere definitivamente la strada della pace e faccia i conti con le tante guerre che affliggono molti paesi nel mondo. I conflitti portano solo dolore, distruzione e povertà. E' il momento dell'affermazione definitiva dei valori democratici che oggi siamo qui, tutti insieme, a celebrare.

Per questo tutti noi dobbiamo tornare a chiedere alla Russia di Putin di interrompere questa guerra di invasione assurda e aprire un tavolo per il negoziato di pace, in quel tavolo si dovrà lavorare per risolvere le questioni che hanno portato allo scontro che riguardano l’ucraina in generale ma anche le zone del Donbass in particolare dove da anni si sta combattendo e si stanno commettendo crimini contro l’umanità, perché come noi con forza e grande senso di solidarietà stiamo ascoltando le grida di aiuto del popolo ucraino, non possiamo ignorare le grida provenienti da altre popolazioni che si trovano a vivere un conflitto, li come nel resto del mondo. 
Prendo a prestito la frase di un soldato ucraino intervistato nel Dombass all’inizio del conflitto La guerra ha la stessa faccia da qualsiasi parte tu la guardi o la viva, ovvero la faccia della morte. Ogni escalation militare, di qualunque tipo e per qualunque causa, è un punto a favore della guerra e di chi nella guerra si sente a suo agio, per lucro o per natura.
Noi intanto siamo stati pronti ad accogliere chi ha scelto di lasciare il paese, soprattutto le donne e i bambini e l'Amministrazione Comunale ha aperto un conto corrente per raccogliere fondi da destinare ai profughi ed ha messo a disposizione della comunità ucraina livornese un locale di proprietà del Comune per la raccolta di beni da inviare in Ucraina.
Ora c’è un paese aggredito e un autocrate aggressore ed è scontato che tutti noi ci si muova perché l’aggressore la faccia finita. Dopodiché con grande pragmatismo e con oggettività si dovrà a livello mondiale lavorare per rimuovere tutti gli ostacoli, ovunque essi siano, che minano le basi della convivenza pacifica e che purtroppo in maniera repentina hanno reso nuovamente attuali e molto vicine a noi le parole come invasione, occupazione, fosse comune, eccidi, parole che da tempo pensavamo solo come ricordo e racconto della storia. 
A Livello locale, nella nostra comunità, dovremo continuare a prevenire Il male sotterraneo di tutte le società, anche di quelle più progredite. 
Un male che va prevenuto prima di tutto nell’uso del linguaggio, specialmente in questi tempi pieni di voci caotiche. 
Poi con la pratica politica e sociale, rinsaldando le istituzioni democratiche, salvaguardando la ricchezza del mondo dell’associazionismo, della cultura e del volontariato. Infine per noi italiani difendendo e valorizzando la nostra costituzione, Linea maestra della nostra comunità".


Prolusione per il 25 aprile 2022, Livorno, di Catia Sonetti, Direttrice Istoreco-Livorno

Ringrazio le autorità civili, militari, i rappresentanti delle associazioni presenti, ai cittadini tutti.

Sono passati 77 anni dalla Liberazione del Paese. E oggi la nostra festa cade in un momento drammatico, il più drammatico della storia europea recente. Intorno a noi c’è un panorama di guerra, una guerra fatta di bombe, di morti, di stupri, di violenze, di sfollati civili in fuga, di fosse comuni e torture. Ad essere attenti e meno smemorati non è neppure la prima volta. Basta pensare alla guerra in Bosnia o per meglio dire, nei Balcani, a due passi da noi. Solo che quella guerra ci appariva ed era una guerra multietnica, multi religiosa, una guerra civile, uno scontro fra nazionalismi opposti. Questa sotto i nostri occhi adesso è iniziata perché un paese, la Russia, ha invaso un altro paese, l’Ucraina. E questo non può non rinviarci ad un’altra invasione, quella dei nazisti contro la Polonia e da lì la sciagura infinita del 2° conflitto mondiale. E questo non può non spaventarci. Così come ci spaventano altre analogie. Anche in quel caso come in questo si sarebbe potuto fare qualcosa prima per fermare Hitler e Mussolini. Ma al momento dell’attacco alla Polonia fu sicuramente un bene l’intervento della Francia e della Gran Bretagna perché gli altri alleati si aggiunsero solo strada facendo. Ma attenzione fu Mussolini, il Duce, ad aprire lo scenario bellico con l’invasione dell’Etiopia nel 1935 e da quella data gli europei in primis non uscirono più da uno scenario di guerra. (Etiopia, poi Spagna, poi Albania, poi Grecia etc etc). Non siamo stati trascinati a forza nel secondo conflitto.
Quale era il veleno che alimentava quelle decisioni? Sicuramente il nazionalismo. Nazionalismo che è parola tornata a suonare e neppure sottovoce nell’Europa di oggi, per non guardare oltre questo orizzonte. Perché tutti noi viviamo in una dimensione globale, se l’avevamo dimenticato, è bastato (si fa per dire) il Covid 19 a ricordarcelo. La nostra però capacità di comprensione e soprattutto di empatia è assai più modesta. Siamo animali che agiamo con i nostri corpi in uno scenario spaziale molto piccolo. Non arriviamo neppure al raggio di azione di un leone. Con gli aerei ci spostiamo su distanze enormi ma come individui formati di carne e sangue e testa e sentimenti, rimaniamo sempre attaccati al medesimo scoglio. Questa nostra dimensione umana, diventa però a certe condizioni troppo umana, e si trasforma in qualcosa di venefico. Il mio spazio diventa contrapposto al tuo. Il mio paese è più del tuo, il mio Stato si trasforma nella mia Nazione, scritta con la lettera maiuscola, e la mia Nazione ha più diritti di quella degli altri. 
Pensiamo ad uno degli slogan di Marine Le Pen: “l’Europa delle nazioni” contro l’Europa sovranazionale che, come ci avevano già spiegato Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, era l’unica salvezza. E Spinelli, Rossi, e gli altri che si ricollegavano ad un filo rosso, anche risorgimentale, che portava più lontano da quel presente di Ventotene, avevano intuito che solo una grande forza multinazionale avrebbe potuto salvarci dai disastri del nazionalismo, del razzismo, del bellicismo che dominavano incontrastati nel loro tempo. E che sono a tutt’oggi disvalori non andati in soffitta.
Perché comincio da questo ragionamento? Rispondo subito. Parto da questo nostro presente perché la storia ha un senso solo se parte dalle domande che il presente gli pone. L’aveva capito anche un liberale moderato come Croce quando dichiarava che fuori da questo paradigma c’era solo erudizione. Allora, a 77 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, quali sono le domande che possiamo fare a quella storia, quali le considerazioni che ci suscita e che possono aiutarci nella comprensione, sicuramente imperfetta e fragile, ma anche partecipata e costruita criticamente, evitando, per quanto possibile la canea della stampa, dei talk show, dove invece di ragionare sulla complessità dello scenario si taglia la realtà con la scure e ci si affida ad un linguaggio volgare ed urlato. Perché così si fa audience. Perché prima di tutto, anche in questo scenario tragico, noi siamo e restiamo consumatori prima che cittadini.
 Ma torniamo a quei lontani anni, al biennio 1943-1945. La prima considerazione che mi viene di proporre è una riflessione oramai acquisita dalla storiografia, anche quella che riguarda il nostro territorio, sul quale l’Istoreco incaricò l’allora giovane studioso, Stefano Gallo, di ricostruire con la pazienza e con gli attrezzi della ricerca, la vicenda della 3 Brigata Garibaldi, vicenda che riguarda i nostri territori.
Gallo individuò e sistematizzò tutti i fili che vi si intrecciavano: dall’impegno dei cattolici del circolo di Santa Giulia con don Angeli in testa, alla componente politica comunista che non aveva mai smesso di operare anche se costretta alla clandestinità nell’intero periodo della dittatura fascista, al gruppetto piccolissimo di Giustizia e Libertà.  Fu una resistenza che condusse ad arresti (pensiamo ad una persona cara a tutti noi come Garibaldo Benifei) al confino, all’espatrio. Proprio di recente abbiamo prodotto con l’aiuto del comune di Rosignano una pubblicazione su un percorso resistenziale esemplare come quello di Oberdan Chiesa (presenteremo il volume alla biblioteca Labronica domani pomeriggio). Esemplare perché Oberdan proveniva da una famiglia livornese di religione valdese, era figlio di antifascisti legatissimi alla tradizione democratica risorgimentale e fratello di un ricercato comunista, Mazzino, già espatriato o fuoriuscito come si chiamavano quelli costretti come Jacoponi, Barontini, Cafferata e decine e decine di altri a fuggire in Francia, e talvolta, grazie ai legami con la rete del Comintern, in Unione Sovietica, per sfuggire alla polizia fascista. Ed alcuni di questi finirono travolti nelle purghe staliniste come Astarotte Cantini, storia ricostruita da Mario Tredici di recente. E questo a testimonianza di come non ci sia storia locale che non si ricolleghi alla Storia generale.
Ma accanto ai cattolici e ai comunisti c’erano anche i socialisti e Livorno era la terra di uno dei più illustri tra questi, Giuseppe Emanuele Modigliani che con la moglie Vera dovette scappare in Francia. Occorre  però precisare che la famiglia Modigliani era anche una famiglia di ebrei e se loro erano personaggi con un peso a livello nazionale, c’erano all’interno della comunità ebraica labronica anche  personaggi minori schierati e impegnati nell’antifascismo militante, come Giorgio Orefice, ebreo rifugiatosi in Francia, o Renzo Cabib, che arrestato con la sorella fu inviato in un campo di internamento ad Urbisaglia o i commercianti Dello Strologo inviati al confino, o alcuni membri della famiglia Misul. Ma legata a Livorno perché in contatto con il gruppo di Don Angeli, c’era anche Anna Maria Enriques Agnoletti, arrestata, torturata e uccisa a Firenze dalla Banda Carità. Questo per precisare con più correttezza il posizionamento in quella cornice dei cittadini ebrei, troppo spesso relegati solo nella dimensione vittimaria che non rende a pieno una riflessione sulla loro collocazione. Eppure basterebbe conservare la memoria di esempi nazionali come Vittorio Foa, i fratelli Rosselli, Emanuele Artom, Leone Ginzburg o Israele Bemporad partigiano a Pistoia. Ma c’erano anche i repubblicani, spesso anche massoni e a Livorno era tanti, perseguitati dal regime come gli altri. E dentro le vicende dell’opposizione politica clandestina, variegata, multiforme, articolata, si sovrapponeva l’opposizione popolare, quella dei ceti legati al lavoro industriale, al piccolo commercio ambulante, alle fabbriche che gravitavano sul porto. Era un’opposizione che si esprimeva con le scritte sui muri, con poche parole vergate su fogli improvvisati gettati nelle cassette postali, con lo sberleffo e l’irrisione dei simboli del fascismo. E Livorno fu sicuramente una delle capitali di queste forme di resistenza civile.
Tutte queste esperienze, va sempre ricordato furono però solo e sempre esperienze di avanguardie. La maggior parte della popolazione era in piazza della Repubblica a inneggiare all’Impero, la maggior parte dei cittadini, a prescindere dal credo religioso e dalla collocazione sociale, si identificava con il fascismo. Anche perché e anche questo oggi serve a spiegarci altre cose, quando un individuo vive sotto un regime c’è un controllo costante, diretto, stringentw, della comunicazione. Non ci sono spazi per informazioni dissonanti dalla voce del dittatore. Tutti si devono uniformare alla sua voce e la critica non ha diritto di esprimersi. Il popolo come ha scritto Gibelli viene considerato come un bambino che va supportato dalla culla alla bara, fidelizzato con organizzazioni paramilitari dai figli della Lupa ai Guf universitari.  Così chi alla fine sfugge a quel lavaggio del cervello quotidiano, pervasivo e costante, sono veramente pochi. E personalmente tendo a pensare che il veleno di queste esperienze protragga la sua influenza su più generazioni.  E questo vale per tutte le forme dittatoriali, non solo quella fascista sulla quale abbiamo diritto di primogenitura.
Fu grazie però a queste avanguardie che quando si aprì lo spiraglio di potersi ribellare a quella dittatura e darsi una nuova prospettiva di futuro, penso alla decisione presa dal re e da Badoglio per opportunismo e non certo per acquisizione di consapevolezza democratica, di firmare l’armistizio con gli alleati l’8 settembre, si pose davanti ai loro occhi e soprattutto alla loro coscienza il tema della “scelta”. Ricordiamoci anche che gli stessi individui che firmarono l’armistizio, dichiararono la guerra ai tedeschi solo un mese dopo, lasciando i nostri soldati dislocati sui fronti più lontani in mano al nemico, senza indicazione alcuna. E fu questa condotta sciagurata che portò all’internamento di circa 700.000 soldati italiani che divennero ben presto IMI, nei campi di internamento dei tedeschi. E in quei campi si realizzò una delle più importanti forme di resistenza, quella raccontata da Natta, o da Guareschi o da tanti ignoti soldati e ufficiali, come per Livorno, Ivo Michelini, che si rifiutarono di arruolarsi con l’armata nazista e rimasero prigionieri per quasi tre anni in condizioni durissime anche perché vennero individuati e trattati da traditori. E Mussolini non mosse un dito per reclamarli perché temeva che se li avesse ottenuti dal suo sodale Hitler sarebbero finiti ad ingrossare le file della resistenza.
In quelle giornate difficili e tragiche dell’8 settembre e dintorni, si ritrovò il filo rosso capace di ricongiungersi alle lotte operaie del marzo 1943 nel triangolo industriale ma sviluppatesi anche dalle nostre parti (al cantiere Orlando, alla Litopone, alla fabbrica Sice di viale Carducci, agli scioperi nelle miniere di Campiglia o nello stabilimento dei Refrattari di Piombino), alla memoria delle lotte del biennio rosso. Gli anziani combattenti di quelle lotte erano stati perseguitati, isolati, ma erano ancora lì, in vita, capaci di dare una mano. Pensiamo per un momento al ruolo che dovettero svolgere i coniugi Cervi nei confronti dei loro figli, come esempio, come guida. Perché per pensare al futuro necessita avere uno sguardo limpido sul passato. 
E da tutto quanto già sottolineato, insieme agli effetti dei bandi rivolti ai giovani per l’arruolamento nelle file dell’appena nata Repubblica sociale, nasce la spinta a darsi alla macchia. Si incrociano vecchie avanguardie, penso ai Manna, o a Jacoponi rientrato dall’esilio, a Garibaldo Benifei, liberato dalla prigione, o a Bruno Bernini rientrato fortunosamente da Milano dove era militare.
Nascono i primi gruppi di partigiani, a macchia di leopardo. La prima zona a partire è a sud della provincia, si collega alla tradizione di antagonismo sociale sia operaia che contadina. Intervengono nella formazione delle prime bande, anche esponenti militari più maturi. Si comincia a combattere quella che è una vera e propria guerriglia. Le poche battaglie che si avvicinano di più a vere e propri scontri, vengono perse. Penso a quella del Frassine. Una volta caduti, ci si rialza e si curano le ferite e si riparte. E chi gioca un ruolo imprescindibile in questi frangenti? La componente contadina che dà aiuti concreti, che nasconde e tutela, e l’operazione delle staffette, le donne, che sviluppano una rete di connessione tra gruppi divisi, che portano medicinali, cibo e ordini. E nei primi anni dell’immediato secondo dopoguerra non si parla quasi mai di loro per non offendere i benpensanti. Eppure la resistenza italiana, come quella francese, quella polacca, quella ceca, quella jugoslava, ha visto come staffette le donne e le ha anche viste in armi e quindi non c’è solo il classico “maschio combattente”. E poi con le armi e senza le armi, quella guerra fu agita da attori giovanissimi, con poche mezzi a disposizione, con poche risorse (dalle nostre parti i lanci degli alleati sono stati praticamente inesistenti e là dove ci furono, furono molto selettivi, non a caso si è parlato dell’”alleato nemico”), ma quelle donne e quegli uomini continuarono a lottare e a resistere, fino alla fine. E mentre combattevano avevano in testa non un solo obiettivo, ma diversi obiettivi da raggiungere, un vero e proprio progetto di società democratica. Cacciare il tedesco dalle nostre terre e questa è la guerra patriottica, cacciare il fascista e questa è la guerra civile, perché i fascisti erano altri italiani, erano fratelli e sorelle dei combattenti, e poi migliorare in senso sociale il mondo ereditato dal fascismo, e quella era la guerra di classe. Quest’ultimo volto della nostra Resistenza e non solo della nostra, è quello del quale si parla meno da qualche decennio, ma fu particolarmente sentito. Le bande erano organismi molto compositi con operai, impiegati, insegnanti, studenti, militari. Ma c’erano anche soldati stranieri: polacchi, russi, tedeschi, scappati dal controllo tedesco, c’erano carabinieri, poliziotti unitisi alle bande. Soprattutto però c’erano operai e contadini, e c’erano diverse ideologie politiche. Anche monarchici si potevano incontrare. Ma chiunque fosse stato preso sarebbe stato fucilato magari dopo la tortura. Perché la guerra è questo da sempre. Tira fuori il peggio, soprattutto quando non si combatte per salvare la propria terra, ma si combatte spinti da una ferocia ideologia nazionalista, aggressiva. E il territorio della Toscana si trovò a pagare un prezzo altissimo soprattutto per le vittime civili nella strategia di fare terra bruciata attorno ai partigiani. Dalle stragi del sud come quelle di Civitella della Chiana fino a Vinca a Sant’Anna di Stazzema, passando per Guardistallo e decine di altri episodi. Episodi efferati compiuti con lo scopo di spaventare, annichilire, pagati dai civili, dalle donne, dai bambini, dai vecchi.
Ma forse lo scopo fondamentale di quei combattenti, sia quelli raggruppati nelle bande alla macchia che quelli inseriti nelle Sap e nelle Gap, era quello di far finire la guerra che non avevano voluto, farla finire al più presto. Non volevano diventare degli eroi. Volevano vivere una vita normale, fatta di amore, di lavoro, di gioia. Dall’altra parte si combatteva con il teschio sul cappello, ubriachi di un odio contro i disobbedienti al regime, contro i diversi, verso quelli individuati come inferiori da una teorizzazione razzista che vide però il consenso di molti sedicenti scienziati, penso agli ebrei che il fascismo e il nazismo avevano collocato fuori dalla famiglia umana, che vedevano solo come corpi da sterminare.
La guerra poi finalmente finì grazie sicuramente all’intervento degli Alleati, al contributo della Armata Rossa, ed oggi ricordiamo proprio quella fine, ed è giustamente un Giorno di Festa nazionale. La più importante festa laica del nostro paese, ma io direi dell’Europa intera, con date diversificate da paese a paese. Ma quelle feste, tutte, celebrano il ritorno della Pace.
E poi siamo riusciti, solo in parte, a realizzare il sogno del Manifesto di Ventotene, siamo riusciti a mantenere la pace nei confini dell’Europa occidentale per 77 lunghi anni. A livello storico è un risultato che ha dell’incredibile. Però perché preciso un confine geografico e politico? Perché negli ex territori governati da élites legate all’Unione Sovietica o indirettamente legati a quella ideologia, la guerra è scoppiata al momento del dissolversi della cortina di ferro, penso alla Bosnia, ai bombardamenti su Sarajevo, agli stupri etnici e a tutta quella brutalità che ci cadde addosso come un macigno nel 1992.
Come diceva sabato sera Rosy Bindi ad una trasmissione televisiva, fra le differenze tra la Resistenza dell’Ucraina e la nostra Resistenza ci sta anche il fatto che i nostri partigiani non volevano solo liberare il Paese, avevano anche in testa un progetto, un progetto che riuscì ad andare in porto. Portare la democrazia in Italia, cancellare le leggi razziali, dare al Paese una Costituzione, riconoscere il diritto di voto alle donne, fare il referendum Repubblica/monarchia.
Quei risultati furono raggiunti eppure da subito si cominciò da parte dell’establishment dell’esercito e da parte delle forze reazionarie presenti, a operare per distorcere quella storia, quella passata e quella più recente. Il processo di epurazione finì in una barzelletta. Nessuno dei 729 tra alti ufficiali e civili che dovevano essere processati per crimini contro l’umanità, pagò qualche prezzo e neppure venne processato. Anzi. I più esposti come Roatta, o Robotti, o Angelini, si misero subito a scrivere memorie dove raccontavano una verità di comodo. E così le stragi di civili perpetrate a danno dei greci, della popolazione del Balcani, divennero, così scrivono, furti di polli, “marachelle”. Così si cominciò ad alimentare la leggenda del “buon italiano contrapposto al “cattivo tedesco”. E così cominciò una campagna assolutoria mai terminata. Ci siamo dimenticati della Circolare Roatta, la 3C (non dente per dente ma testa per dente), ci siamo gettati dietro le spalle l’eccidio di Debra Libanòs dove i nostri sterminarono un intero gruppo di monaci copti in Etiopia, o quello 
di Domenikò in Grecia. Stragi mai riconosciute, mai entrate nella narrazione comune degli italiani. Come ebbe a scrivere Vittorio Foa: “non si è trattato di una rimozione di tipo psicanalitico, quanto piuttosto di una comoda ma delittuosa cancellazione della storia poiché quando non si riconosce la vittima si è uccisa due volte.” 
E per ritornare ad un esempio che ci riguarda. Ricostruendo la vicenda dei deportati ebrei di origine livornese ne sono riuscita a documentare 204, un numero enorme mai neppure sospettato fino a questa ricerca. Dietro ogni arresto c’è un italiano. Quindi, altro che mito del “buon italiano!”
Così nel secondo dopoguerra si è costruita una ricostruzione che ha teso a rappresentarci come popolo innocente, nel suo complesso, mentre in questo paese sono bastate poche settimane dalla fine della guerra perché nascesse il movimento dell’Uomo Qualunque e poi il Partito di Almirante, l’Msi, che si richiamava direttamente alla Rsi. Il paese si è messo all’opera per una ricostruzione difficile e faticosa, contraddittoria ed incerta. Non dimentichiamoci le stragi di Stato, la criminalità organizzata, il terrorismo nero e rosso. Un paese pieno di risorse e anche di bellezza, non solo artistica e naturale ma anche umana eppure un paese dilaniato da feroci differenze sociali, dove i ponti cadono per l’incuria e i neofascisti assaltano il più grande sindacato italiano. Abbiamo le risorse per resistere a tutto ciò? Non è una risposta scontata anche perché ultima in ordine di tempo è arrivata la notizia che la nostra classe dirigente alla quasi totale unanimità, ha proclamato il 26 gennaio (notare la data, a ridosso della Giornata della Memoria) la Giornata nazionale degli Alpini, per la ricorrenza della battaglia di Nikolajewka del 1943 dove a fronte di una forza di 61.155 effettivi se ne persero per morte, congelamento, caduti prigionieri, oltre 47.500. 
Nessuno vuole disconoscere il sacrificio di quei ragazzi, ma è sbagliato, sciagurato dimenticare che eravamo lì alleati dei tedeschi in una guerra voluta da Mussolini, sbagliata e atroce. E poi perché non fare la giornata dei fanti caduti a Cefalonia che causò 5155 morti a causa dell’attacco tedesco successivo all’armistizio ma soprattutto a causa del mancato ordine di contrattaccare dei nostri ufficiali, e potremmo continuare su questa strada a lungo.
Noi siamo diventati un paese con un calendario saturo di giorni della Memoria, ma con una popolazione adulta e scolastica tra le più disarmate d’Europa, a fronte però di una messa in scena di retoriche celebrazioni come nessun altro è stato capace di darsi. Evidentemente, e lo dico con dolore, la nostra classe dirigente continua, escluso lodevoli eccezioni, continua ad essere inconsapevole della nostra storia, pronta ad inchinarsi alla prima richiesta di versare delle lacrime. Non costano niente. Non solo. Anche la scelta della collocazione temporale di questa ricorrenza inventata, è sciagurata. Il giorno prima della commemorazione delle leggi razziste di questo paese, dell’uccisione nei campi di sterminio di 6.000.000 di ebrei. Del resto la stessa scelta del 10 febbraio per ricordare il tema del confine orientale, comprese le foibe (e non come a molti fa comodo solo le foibe!) è stata una collocazione che è servita ad avvalorare tra i più stupidi o i più ignoranti, od entrambe le cose, soprattutto a chi fa un uso pubblico della storia e la tira per la camicia per i propri interessi di bottega, la questione delle foibe alla Schoah. Paragone criminale e inaccettabile. Cosa c’entrano queste considerazioni con la nostra Festa. Sono più attinenti di quanto si possa pensare.
Viviamo oggi in una cornice di guerra e appellandoci anche all’eredità che ci hanno lasciato i partigiani, occorre che ciascuno di noi, faccia tutto il possibile per far tacere le armi, occorre che ciascuno spinga affinché la politica si assuma le proprie responsabilità e costringa l’aggressore, Putin e l’aggredito l’Ucraina, a trovare una soluzione diplomatica che non sia però una resa, altrimenti rischiamo una guerra latente a bassa intensità, ma sempre guerra per i decenni avvenire ma senza questo impegno la guerra dilagherà. Putin ha già dichiarato altri obbiettivi, altri territori da annettersi.
Tutto questo mentre siamo in un momento storico carico di ferite e di dolore. Veniamo dalla crisi economica del 2008, siamo stati travolti, tutti, dalla pandemia del virus, il nostro pianeta diventa giorno dopo giorno sempre meno abitabile. Quello che sarebbe prioritario fare per noi e per le giovani generazioni è assumerci il compito di prendersi cura del nostro pianeta, sanare le ferite che gli abbiamo inferto con un uso dissennato delle risorse, ma occorre rivolgerci al nostro passato per estrarre da esso il meglio che sappia esprimere. Occorre del nostro passato farsi carico per intero, non accomodarlo all’ultima ideologia di moda, occorre essere onesti con la nostra storia, ammettere gli errori e gli sbagli, solo così le pagine migliori e ce ne furono, potranno parlarci ancora.

Scriveva Gramsci:

«una coscienza collettiva, e cioè un organismo vivente, non si forma se non dopo che la molteplicità si è unificata attraverso l’attrito dei singoli [...] Un’orchestra che fa le prove, ogni strumento per conto suo, dà l’impressione della più orribile cacofonia; eppure queste prove sono la condizione perché l’orchestra viva come solo “strumento”». 
I nostri partigiani sapevano tutti che era anche un problema di educazione, sapevano bene che non si diventa democratici da un giorno all’altro. Che non ci si scuote di dosso vent’anni di dittatura fascista neppure in una lotta eroica e fu per questa consapevolezza che nelle bande si curò anche la formazione pedagogica dei componenti”. 


Noi oggi, abbiamo bisogno di inventarci una nuova pedagogia, all’altezza dei tempi e la dobbiamo inventare senza l’aiuto di corpi intermedi come erano i partiti di massa, la Dc, il Pci, il Psi. Ma se quei ragazzi che spesso andavano alla macchia ancor prima di aver ricevuto i primi pantaloni lunghi ce l’hanno fatta, forse potremo farcela anche noi.
 

I cittadini potranno rivedere la registrazione della cerimonia dal Consiglio Comunale sul canale youtube “Consiglio Comunale Livorno”.

 

 

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