Spettacolo: "Beckett's - otto volte Beckett" 2011 - 2012

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Ultimo aggiornamento Martedì, 13 Novembre, 2018 - 18:12

Tutta l’opera di Samuel Beckett è percorsa dall’idea di una condizione umana segnata dalla sofferenza e dall’assenza di senso della vita. Pessimismo e negatività, nei confronti del presente, che sono tuttavia un antidoto contro il cinismo, il materialismo e l’avidità della nostra epoca.
In un mondo preoccupato unicamente del denaro e del successo a qualunque costo, desideroso soltanto di essere confermato nelle proprie volgari ed egoistiche certezze, il teatro di Beckett ci costringe a ripartire da zero, a ripensare, alla luce della sua laica spiritualità, al senso – o meglio all’assenza di senso – del mondo in cui viviamo.

In “Aspettando Godot” la conversazione è ridotta ad un dialogo fine a se stesso, non conduce mai all’azione. ESTRAGONE e VLADIMIRO aspettano e, con POZZO e LUCKY,  colmano il vuoto dell’attesa - e della vita -  attraverso una conversazione che continuamente si esaurisce. L’attesa di qualcuno che non verrà diventa la forma in cui si rivela il significato estremo dell’esistenza umana.

In “Finale di partita”, la pièce più ‘disumana’ di Beckett, il dramma si consuma in una specie di bunker, con HAMM, cieco ed immobilizzato su una sedia a rotelle, e CLOV, il servitore-figlio che non può mai sedersi e cammina con andatura rigida e vacillante. Da due bidoni della spazzatura emergono i genitori di Hamm, NELL e NAGG. Tutti sono in attesa di una fine inevitabile, intenti a parlare senza tuttavia comunicare, a vegetare “dopo che sono accadute cose  a cui in verità non possono sopravvivere nemmeno i sopravvissuti”. Il riferimento alla seconda guerra mondiale è palese.

“L’Ultimo nastro di Krapp” segna una svolta: Beckett rinuncia al dialogo e costringe la forma drammatica entro quella del monologo. KRAPP è un vecchio scrittore ‘sfatto’ che affida riflessioni e ricordi al registratore e alle bobine incise nel corso degli anni. Egli ha dimenticato tutto, come appare evidente dalla lettura perplessa del registro su cui ha annotato il contenuto dei nastri. Il passato è bloccato nella registrazione, oggetto di scherno per il presente ma anche di rimpianto.  Il nastro dei suoi trentanove anni rievoca un tempo in cui la felicità era ancora possibile, una scena d’amore: amore rifiutato per scrivere il suo ‘capolavoro’, risoltosi in realtà in un altro fallimento.

In “Giorni felici” Beckett elimina, oltre al dialogo, il movimento. Per WINNIE, interrata fino alla vita, sono ‘felici’ i giorni passati che ricorda in modo gioioso, parlando in continuazione.  Le piccole occupazioni del presente sono occasione di frasi soddisfatte, più o meno convinte, tese ad affrontare la giornata nascondendo a se stessa, prima che agli altri, la realtà della propria condizione. La normalità delle sue frasi e l’anormalità della situazione sono la chiave del dramma. L’interramento di Winnie è la visualizzazione della desolata realtà in cui risuonano quelle frasi illusorie, il contesto che ne fa risaltare tutta la vacuità.

In “Commedia” ci sono in scena due DONNE e un UOMO, le cui teste emergono da tre urne. Il luogo dell’azione è un vago oltretomba. I tre cominciano a parlare contemporaneamente, poi, in modo alterno, ciascuno racconterà dal proprio punto di vista la banale vicenda che li ha accomunati, il classico triangolo della commedia tradizionale. Un certo effetto comico iniziale svanisce a poco a poco, lasciando il posto allo squallore della storia narrata, forse non tragica ma certo desolante.
“Andirivieni”è il primo dei ‘dramaticules’ di Beckett, testi costruiti intorno a un’unica immagine, o situazione, che consuma le sue possibilità espressive nell’arco di pochi minuti.

FLO, VI e RU sono amiche d’infanzia che si ostinano ad incontrarsi pur non avendo nulla da dirsi. La scena è astratta, il movimento negato o ridotto al minimo, i personaggi quasi non esistono salvo che per la progressiva esasperazione del loro carattere.

“Non io” è un profluvio di parole, incomprensibile all’inizio, torrentizio. E’ una VOCE DI DONNA anziana, il cui monologo interiore ci lascia intuire una vita di solitudine agghiacciante e di sofferenza psicologica insostenibile. Ha passato un’esistenza in silenzio; poi, improvvisamente, a settant’anni, un mattino d’aprile, sente il bisogno irresistibile di parlare. Un fiume di parole esce dalla sua bocca con tutta l’irruenza inconsulta del suo monologo.

Anche in “Dondolo” una VOCE DI DONNA, umanissima ma spogliata di ogni connotazione umana, pronuncia un fiume di parole di staordinario potere evocativo.  C’è un costante riferimento al contrasto tra alto e basso, luce e ombra, l’ombra della morte.
Come praticamente tutti gli altri personaggi beckettiani, infatti, anche questo è colto nel momento che precede la fine e, più o meno consciamente, forse la cerca.

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